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giulio cesare

di raffaello sanzio

Giulio Cesare .Pezzi Staccati. Quando nel 1997 va in scena per la prima volta la creazione che Romeo Castellucci ha tratto dal dramma di Shakespeare, l’artefice punta il dito sull’ “impero retorico” – più vasto e tenace di qualsiasi impero politico, dice – che per diversi millenni ha regnato in Occidente. La sola pratica attraverso cui la nostra società ha riconosciuto il linguaggio. L’elefantiaco lievito della parola vuota. La persuasione che ha di mira unicamente il proprio effetto d’arte. E poi il teatro, naturalmente. Il teatro che prosegue sul piano formale il discorso della retorica, la quale a sua volta ne esalta la vera faccia, che è quella della finzione. Così Castellucci, introduce il lavoro, una ricerca che attinge anche agli storici latini, al diritto romano, all’oratoria ciceroniana.

Culmine dell’arte retorica, teatralmente parlando, è l’orazione funebre che Antonio tiene davanti al corpo di Cesare trafitto dalle pugnalate dei congiurati. Atto terzo, scena seconda. Ricordate? L’inizio è un tono sotto, da uomo semplice come vuole apparire, incapace di infiammare il cuore degli uomini.

In questa nuova versione, si concentra su due scene principali;  nell’inizio dello spettacolo, c’e l’epifania del personaggio nascosto dietro le lettere “…vskij” (nascondimento fittizio, giacché non ci vuole molto a completare quel nome con le lettere che portano a leggervi uno dei padri fondanti della rivoluzione teatrale novecentesca, il fondatore del Teatro d’arte di Mosca, Konstantin Stanislavskij). Con gesti controllati l’attore, vestito di una tunica bianca, maneggia una sonda endoscopica, l’avvicina al volto e l’inserisce nella cavità nasale, giù fino alla gola, e ne seguiamo tutto il percorso, perché l’immagine della piccola telecamera è proiettata sul fondo, ingrandita all’interno di un contorno circolare. Fino a riprendere le corde vocali, che vediamo muoversi e contrarsi mentre pronuncia il suo discorso.

Nella seconda parte a interpretare il personaggio di Antonio è un attore laringectomizzato – ma padrone del proprio ‘metodo’. Sale su un piedistallo, avvolto nella tunica bianca che gli conferisce autorevolezza. Accompagna il suo dire con ampi gesti retorici della mano, capace di passare dall’appello alla commozione dell’uditorio, trasformando un lembo del sipario socchiuso nel mantello di Cesare trafitto dai pugnali dei congiurati, alla nobiltà statuaria. Ma le parole che pronuncia non provengono dalla sua gola, priva di corde vocali, ma da una tecnica fonatoria che produce una nuova voce.

Sono questi due monologhi concettualmente speculari a costituire la base dei “pezzi staccati” con cui Castellucci torna a interrogarsi sulla creazione.. Da un lato il dare voce diversa alla parola che è la sintesi stessa dell’arte retorica; dall’altro la volontà di penetrare fin dentro la carne della parola, dove la parola si fa suono. Porta la mano sul petto, l’attore che interpreta Antonio, e con questo gesto sigilla il suo trionfo, il trionfo del potere della parola disincarnata, celebrato dallo scoppio di tante lampadine.

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