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Brevi interviste con uomini schifosi
di David Foster Wallace
traduzione Aldo Miguel Grompone e Gaia Silvestrini
regia e drammaturgia Daniel Veronese
con Paolo Mazzarelli e Lino Musella
produzione, Teatro di Napoli-Teatro Nazionale, Marche Teatro, Tpe Teatro Piemonte Europa, FOG Triennale Milano Performing Arts, Carnezzeria srls con il sostegno del Teatro di Roma-Teatro Nazionale, e Carnezzeria
in collaborazione con Timbre 4 Buenos Aires
“Il titolo ci mette in guardia e non ci delude: “Breve incontri con uomini schifosi”; e per un’ora li vedremo, gli uomini ripugnanti. Scritta e diretta da Daniel Veronese, il lavoro ricompone, con notevole lucidità, una serie di monologhi in brevi conversazioni, dove assistiamo a due livelli di ripugnanza: quello che gli uomini fanno e quello che gli uomini narrano su quello che fanno.
Il titolo ci avverte: non c’è unità di azione. Le scene sono brevi e la connessione che propongono è tematica: parlano di conquiste sessuali, parlano di amore romantico o addirittura di perdita dell’amore, e lo fanno nella registrazione discorsiva in cui l’ideologia è meglio mascherata: l’universo del quotidiano.
Con un efficace dispositivo scenico che rompe (quasi) tutti i livelli espressivi dell’illusione realistica, Veronese concentra il nostro sguardo come se fossimo effettivamente in un laboratorio -il teatro- dove le ideologie sono messe alla prova e testate. In “Brevi Incontri con uomini schifosi” le pratiche affettive (cioè intime) e le pratiche discorsive (cioè sociali) di questi uomini sono offerte al nostro ascolto come in una spirale che si espande e si intensifica ad ogni giro. I frammenti si accumulano per farci vedere sempre più orrore come la violenza che la mascolinità esercita sui nostri corpi sia mascherata dal senso comune -o dal senso pratico del mondo- e cristallizzata, incarnata, in ciò che erroneamente chiamiamo, molto prima della cultura, la natura dell’uomo (del macho).
E questa è la grande scoperta della messa in scena: in “Breve incontri con uomini schifosi”, Veronese produce una sorta di zero grado del teatro, dove la regia e la recitazione, lasciano ascoltare e lasciano pensare tutto quello che si amplifica (e si decodifica) da sé, senza bisogno di essere sottolineato, né moralizzato, perché il regime di leggibilità già lo apporta , con tutta la sua potenza, l’epoca.
Gli attori partecipano al gioco che propone l’opera e lasciano che il cumulo di linguaggio lavori sui loro corpi per illuminare le piccole forme sulle quali la ripugnanza produce le sue variazioni. Partecipano al gioco e riescono a fare della violenza un gesto attraente, seducente, impercettibile, impunito. E in questo gesto riportano sulla scena qualcos’altro: la cecità, l’alienazione che secoli di ideologia hanno prodotto su quegli stessi uomini e che impedisce loro di riconoscere la violenza come violenza.”
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